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interviste

Dai giovani avvocati un No al mercantilismo senza criteri

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di Valter Militi, Presidente AIGA

Le associazioni dei consumatori, che in questi giorni hanno sventolato con rinnovato vigore il vessillo della liberalizzazione, nel corso dell’anno 2003 hanno ricevuto dal Ministero delle Attività Produttive (oggi Sviluppo Economico, Ministro Bersani) contributi pari a 27 milioni di euro. Lo Stato ha rappresentato, per la maggior parte delle 16 associazioni che compongono il Consiglio Nazionale dei consumatori e degli utenti, la principale fonte di finanziamento, all’apparenza superiore rispetto alle quote associative. Peraltro i paladini dei consumatori, in guerra tra di loro per la spartizione di questa torta, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore, sono in buona compagnia. Nel nostro paese un contributo, diretto o indiretto, non si nega (quasi) a nessuno: partiti politici, associazioni di volontariato, imprenditori, industriali, carta stampata. Moltissime attività, senza il sostegno della mano pubblica, non durerebbero lo spazio di un mattino. Pur senza far parte di quella elitè di opinionisti che, calati dall’alto delle proprie cattedre universitarie alle prime pagine dei giornali hanno spiegato quanto gli avvocati fossero tra i principali freni delle sorti progressive del paese, si intuisce un effetto distorsivo sulla concorrenza. Forse per rilanciare il paese sarebbe stato più utile dirottare tutte queste risorse verso i servizi primari che uno Stato ha il dovere di assicurare: sanità, difesa, pubblica sicurezza, giustizia, infrastrutture. Forse i professionisti, e le associazioni che li rappresentano, senza alcun contributo pubblico, non sono i veri nemici della concorrenza, i privilegiati nelle riserve protette, le quote nere. Potrà apparire strano ma gli avvocati che hanno raggiunto il numero di 180.000 (in aumento esponenziale) ritengono di agire in un mercato concorrenziale, regolamentato ma concorrenziale, e pensano che i propri fatturati in caduta libera non siano frutto di abili elusioni fiscali ma la conseguenza di una smisurata crescita che sta minando l’esistenza stessa del sistema. Questo pacato e banale ragionamento si scontra, però, con un pregiudizio ideologico, abile “maquillage” di non troppo confessabili interessi. Già nel corso della Mobilitazione Generale con gli Ordini e le Associazioni Forensi tenutasi a Roma il 17 dicembre scorso, si evidenziava che gli organi di stampa, soprattutto quelli più vicini ai potentati economici ed il cui assetto azionario tutelato da blindatissimi patti di sindacato non pare rappresentare fulgido esempio di liberismo, stavano conducendo un mirato, continuo attacco alle libere professioni, agli ordini, ai liberi professionisti Una visione meramente mercantilistica colloca le prestazioni professionali tra i servizi tout court e lo slogan, che in questi giorni ha trovato nuova linfa legislativa, è da sempre: “liberalizzare per abbassare i costi”. Liberalizzazione è espressione evocativa di bassi costi ed alta qualità, una parola che sembra avere un, tardivo, significato magico, come se deregolamentando i servizi professionali si risolvessero i mali della stagnazione economica del Paese. Il passato ha più volte dimostrato che questa è un’illusione: l’argomentazione del laissez faire poggia sull’appello tacito alla perfezione del mercato sostenendo che, se la regolamentazione provoca inefficienze e distorsioni, i problemi possono essere risolti eliminando le regole. Stupisce che i principali epigoni neoliberisti di oggi siano i vecchi dirigisti pentiti. Al di là di qualche battuta polemica (cui si è pure abbandonato chi ha definito il sistema ordinistico di epoca medievale) i fautori della libera concorrenza all’italiana intravedono negli Ordini professionali una forma di autogoverno che realizza forme di protezionismo (quali il divieto di pubblicità e l’inderogabilità dei minimi tariffari) a discapito degli utenti. Secondo questo ragionamento, ove le professioni si aprissero di più al mercato ed agissero in regime di mera concorrenza economica, si produrrebbe automaticamente l’effetto (utile per l’utente) di far abbassare i costi ed elevare la qualità dei servizi. L’esperienza italiana degli ultimi anni (liberalizzazione tariffe telefonia, gas, energia elettrica, carburanti, trasporti) dimostra esattamente il contrario: i costi aumentano, la qualità diminuisce. Il XXXVII Rapporto sulla situazione sociale del paese del Censis nel paragrafo intitolato significativamente “Privatizzazioni con esiti oligopolistici” offre preciso riscontro a tale affermazione: negli anni 1998-2003 i prezzi dei servizi bancari sono aumentati del 49,2 %, quelli assicurativi sono raddoppiati, le tariffe di energia e gas sono cresciute del 17,2% e del 8,8%, mentre il numero di occupati nei settori indicati è diminuito in maniera preoccupante. In tema di prestazioni professionali, è peraltro accertato che nei paesi in cui i servizi legali sono stati liberalizzati, vi è stato un aumento dei costi per gli stessi cittadini: il modello inglese, cui dovremmo uniformarci, è in particolare quello che comporta la maggiore penalizzazione per l’utente. Quanto accennato è sufficiente a far comprendere perché l’ideologia liberista sia solo un paravento: non sono i Questo fenomeno era stato acutamente anticipato da Enrico Cuccia, convinto che le grandi famiglie del capitalismo italiano, terminato il periodo in cui lo Stato poteva aiutare il capitale privato, con contributi a fondo perduto, senza rendere conto alle altre Nazioni europee, sarebbero migrate dalla manifattura ai servizi, dalla produzione su larga scala all’attività di gestione. La storia più recente ha dimostrato che il “grande vecchio” della finanza italiana aveva avuto una felice intuizione, utilizzando tuttavia l’accezione tradizionale di servizi poiché neppure la sua nota perspicacia avrebbe consentito di immaginare una natura squisitamente commerciale per i “servizi legali”. Dobbiamo dunque ripensare, con attenzione, ai destinatari dei benefici, se ve ne saranno, conseguenti ai provvedimenti varati dal Governo. Non potendo incidere sulle tariffe di molti altri servizi, spesso di loro proprietà, non potendo più richiedere ulteriore flessibilità e risparmi al lavoro dipendente, ormai stremato, agli imprenditori non resta che richiedere tagli sui costi dei servizi professionali, in una logica di profitto di corto respiro. Senza che nessuno esprima l’idea e ricerchi le soluzioni rispetto ad una crisi del Paese che trova causa in altre cruciali questioni, ed in particolare sulla incapacità di innovare, attraverso un forte investimento di risorse umane ed economiche; considerando che solo un corretto apporto delle professioni intellettuali assicura la crescita complessiva del sistema industriale ed imprenditoriale. E proprio la logica del fare sistema, intesa da taluni come semplice spot, impone un quadro di riforme complessive ed una visione d’insieme dei problemi: solo così può evitarsi che i cittadini, indicati inopportunamente ed ingannevolmente come i “beneficiari” di una liberalizzazione sui generis, non si trovino costretti a pagare, per l’ennesima volta, il conto salato che deriva dall’assenza di regole. L’applicazione del concetto di competitività nel settore professionale e specificamente nel settore legale non può prescindere da un serio controllo sulla qualità della prestazione: quella qualità che deve essere la base della concorrenza e che viene svilita da una mercificazione il cui punto di approdo naturale è il saldo di fine stagione o di chiusura attività. L’astensione dalle udienze promossa dall’intera Avvocatura Italiana rappresenta l’ultimo grido d’allarme dei giovani, di quei giovani che, lungi dall’essere arroccati su posizioni conservatrici o neocon, auspicano un effettivo processo riformatore, svincolato da ideologici preconcetti, che possa consentire un rilancio delle professionalità del Paese. Per uscire da una mortificante impasse nella quale oggi si trovano, schiacciati tra coloro che li escludono dai processi decisori, pur declamando di voler “aprire ed allargare gli spazi della professione, del mercato, della politica” e coloro che li intendono come “un’importante risorsa”, a condizione – ovviamente – che la risorsa si trasformi in profitto di chi, in nome di un libero mercato, sarà autorizzato a sfruttarla. professionali al fine di tagliare i costi per le aziende. Non sono i consumatori a richiedere queste riforme ma associazioni, più o meno rappresentative, che hanno intuito il “business” delle conciliazioni extragiudiziali seriali: il discount della giustizia. I paladini delle libere tariffe, della pubblicità, dello smantellamento degli Ordini in nome del mercato, dal mercato sono fuggiti appena la concorrenza stava diventando effettiva, salvo poi intimare alle professioni di aprirsi a modelli culturali incompatibili con il nostro modello sociale. Per poter far capire al cittadino quanto sia falsa la raffigurazione propagandistica tesa a creare lo stereotipo dell’avvocato che governa a suo piacimento la causa al solo scopo di aumentarne i costi. Rappresentazione non solo falsa, ma anche offensiva per i magistrati ai quali la legge assegna il compito di dirigere l’udienza. La realtà è ben diversa, ma se una trave oscura la vista la si descrive come la si vorrebbe.
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