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interviste

Per i giovani avvocati inizia l'era del proletariato intellettuale

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di Gianni Bedin

La disamina serena ed obiettiva del D.L. n. 223/06, licenziato dal Governo il 4 luglio scorso, noto ai più come “Decreto Bersani”, evidenzia l’inizio di un graduale, progressivo e profondo snaturamento dei principi cardine dell’intero mondo delle libere professioni e, ancor più in particolare, del ceto forense. Attraverso il surrettizio ed improprio richiamo ai principi comunitari della “libera concorrenza” e della “libertà di circolazione delle persone e dei servizi”, il provvedimento legislativo, formalmente orientato a dettare norme per il rilancio economico e sociale del paese, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica nonché per il contrasto all’evasione fiscale, finisce con il demolire i baluardi concettuali di fondo della prestazione intellettuale e/o libero/professionale, trasformandone radicalmente natura, svolgimento e finalità. Quel che è ancor più grave, il Decreto Bersani segna il primo, vero e significativo passo verso la deregulation incontrollata delle Libere Professioni, che, com’è noto, comporterà, prima di ogni altra dissennata innovazione, la definitiva abrogazione degli Ordini Professionali. E’ vero che il mondo delle professioni intellettuali e, in particolare, il microcosmo forense necessitano – in termini di indifferibilità – di un processo di profonda e condivisa modernizzazione, tale da garantire, per un verso, la doverosa omegeneizzazione dei principi fondamentali della complessa materia alle regole di estrazione comunitaria e, per altro verso, l’indeclinabile adeguamento di tali principi alle moderne dinamiche della società civile ed imprenditoriale. E’ parimenti indubbio che, sebbene il problema abbia formato oggetto di accesi dibattiti anche in sede parlamentare, sia il ceto libero professionale sia l’Avvocatura non sono riusciti a rivisitare da sé i propri statuti ordinamentali, lacerandosi all’interno dietro insanabili spaccature e lasciando, per tale via, il campo aperto all’intervento a gamba tesa della Politica. E’ altrettanto incontroverso, tuttavia, che tali considerazioni di seria e motivata autocritica non possono giustificare o in qualsiasi modo avallare i principi dettati dal legislatore attraverso un provvedimento normativo irragionevole, ingannevole e, soprattutto, inefficace rispetto agli obiettivi di fondo dichiarati, tanto da prestare il fianco a fondate censure d’incostituzionalità. Entrando nei particolari, si scopre, infatti, che è stata disposta l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che, con riferimento alle attività libero/professionali ed intellettuali, prevedono la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi ragguagliati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, nonché il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto ed il prezzo delle prestazioni, oltre al divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone od associazioni tra professionisti (art. 2, comma primo, lettere a, b e c). Questa norma, accolta dai soliti noti e dalle Associazioni dei consumatori come una sconfitta della lobby degli avvocati, sarebbe funzionale a tutelare la concorrenza nel settore dei servizi professionali, rilanciando lo sviluppo e la crescita, creando nuove opportunità per i giovani professionisti ed in particolare per gli avvocati. E’ vero il contrario. Intanto, il provvedimento legislativo contiene in sé tutti i sintomi della propria fragilità, ove si consideri che, da un lato, viene disposta l’abrogazione delle tariffe fisse o minime degli Avvocati e, dall’altro, si stabilisce che, per qualsivoglia arbitrato, la misura del compenso spettante agli arbitri anche se non avvocati, deve essere parametrato a quello previsto dalla (nuova) Tariffa Forense (Art.27). Ognun vede che se si è ritenuto di estendere a tutte le figure professionali operanti in tema di arbitrato le previsioni contenute nella Tariffa Forense al dichiarato ed esplicito fine di “contenere la spesa per i compensi spettanti agli arbitri”, è perché evidentemente i criteri trasfusi nel tariffario forense sono non soltanto oggettivamente condivisibili, ma anche estremamente convenienti sotto il profilo economico. Può darsi per certo, inoltre, che la disposizione in questione : - determinerà una concorrenza basata esclusivamente sul criterio del minor prezzo, l’unico interessante per i soggetti imprenditoriali, che vedono nella prestazione di servizi legali non un’occasione per accrescere la qualità del bene o del servizio fornito, ma un costo da comprimersi, non potendo ulteriormente limare le retribuzioni dei lavori dipendenti; - impedirà ai giovani avvocati di accedere al mercato facendo valere le capacità tecniche e le specializzazioni acquisite, ma imporrà loro l’offerta della propria prestazione intellettuale a prezzi da “saldi di fine stagione” nella prospettiva di acquisire nuova clientela; - renderà di fatto impossibile, a tutti coloro i quali non dispongono ex ante di un cospicuo patrimonio, di sostenere le spese di formazione professionale ed impianto dello studio, costringendoli automaticamente ad operare in settori di nicchia a scarsa redditività o a porre le proprie energie intellettuali al servizio di strutture già avviate che, in un’ottica di limitazione dei costi, non avranno interesse a retribuire più di tanto i giovani, destinati a formare il proletariato intellettuale del futuro; - non intervenendo con finanziamenti agevolati o altre forme di ausilio economico alla giovane avvocatura, non crea alcuna effettiva concorrenza tra i professionisti, incentivando soltanto le rendite di posizione a favore di chi già è titolare di cospicui patrimoni e ben può permettersi di affrontare i costi della nuova comunicazione pubblicitaria, con l’ulteriore rischio di assistere a campagne pubblicitarie, sicuramente incontrollabili, per non dire mendaci, che determineranno una sorta di sostanziale parificazione tra l’attività costituzionalmente riconosciuta e quella squisitamente commerciale, come se la scelta dell’avvocato possa essere equiparata all’opzione verso un’acqua minerale fra le tanti esistenti sul mercato. Analogo sconcerto solleva la previsione contenuta nell’art.36 dello stesso D.L., che impone ai liberi professionisti e, quindi, agli avvocati di essere remenurati “esclusivamente mediante assegni n.t. o bonifici ovvero altre modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronico, salvo per importi unitari inferiori a 100 euro”. Ci si dica come è possibile credere veramente che una disposizione del genere possa effettivamente contribuire a facilitare la libertà di concorrenza e il contrasto all’evasione fiscale. Sotto quest’ultimo aspetto, è vero l’esatto contrario, perché, nella vigenza dell’obbligo dei minimi tariffari, esisteva un validissimo parametro di riferimento per risalire all’importo minimo comunque percepito dall’avvocato quale reddito assoggettabile all’imposta.
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